Perché nel podismo la quantità ha prevalso sulla qualità?
Avremmo potuto scrivere il titolo dell’articolo sotto forma di asserzione e non di domanda, ma il naturale riserbo ce lo vieta, così come una certa propensione a dubitare sempre un pochettino delle nostre convinzioni, che potrebbero qualche volta essere almeno perfettibili.
Ma la situazione reale è sotto gli occhi di tutti. A parte i recenti mondiali che non ci hanno visto, come nazione, vincere nessuna medaglia, di nessuna specie di metallo, assistiamo a tutti i livelli a prestazioni cronometriche inferiori a quelle che si registravano in un tempo ormai quasi remoto. Sicuramente, l’ultima prestazione degna di rilievo, è stata la medaglia olimpica di Stefano Baldini alla Maratona di Atene, nel 2004. Da allora, il podismo nazionale è “come in coma”. Perché?
Si potrebbero accampare le solite scuse dell’ignavia dei dirigenti nazionali. Si potrebbero lamentare le solite insufficienze, se non mancanze, delle strutture. Oppure, si potrebbero indicare le mancanze nei programmi scolastici delle attività legate alla formazione e allo sviluppo delle attività motorie. Tutto vero, ma non basta. La situazione era questa…, anche prima di Atene 2004. E allora?
Dobbiamo dunque convenire che le ragioni debbano trovarsi, per così dire, in un’altra dimensione, forse psicologica. I grandi campioni italiani del recente passato, da Cova a Bordin, passando per Antibo, Mei ed altri, divennero i punti di riferimento dei podisti, anche amatori. Non ripeteremo mai abbastanza l’importanza che ebbero in questo senso le vittorie di Orlando Pizzolato alla maratona di New York. Tutto il movimento venne pervaso dalla convinzione che l’impegno e la costanza fossero i mezzi per raggiungere certi risultati cronometrici, i quali erano alla portata di tutti, solo se si fossero dedicati con serietà alla corsa. Presero sempre più corpo le stracittadine, che allargarono la base dell’intero movimento e che determinarono l’esigenza di chiamare tutta questa moltitudine, che gareggiava e si allenava nell’impegno e nella gioia, “popolo dei podisti”.
Poi, che è successo? E’ successo che il “successo” ha determinato la moda del podismo, della corsa. E’ stato anche “scoperto” che lo sport fa’ bene alla salute; che praticare la corsa a piedi costa poco, anzi pochissimo, rispetto a tutti gli altri sport. Insomma, è diventato uno sport di massa. Questo è stato un bene, ma è anche stato un male. Si è verificato che molti podisti pensano (magari avendo ragione) che si debba correre per divertirsi, non necessariamente per raggiungere risultati cronometrici di rilievo; con la conseguenza di cui si diceva all’inizio: la quantità ha prevalso sulla qualità.
Ma forse c’è un ultimo aspetto da esplorare, sia per i professionisti che per gli amatori. Le gare, quasi tutte, sono sempre vinte da atleti provenienti dall’Africa. Ciò può aver determinato negli atleti l’errata convinzione che non si possa più vincere e che, quindi, è meglio dirottare le proprie ambizioni verso qualcosa di raggiungibile e perciò meno faticoso.