La funzione pedagogica del podismo
Nel mondo podistico si avverte, da sempre, una certa difficoltà a riscontrare tra i praticanti la presenza dei giovani. Vari fattori concorrono all’endemico problema, dalla mancanza di strutture a quelle che si riferiscono agli adeguati e mirati programmi scolastici colpevoli, come d’altronde la maggioranza degli italiani, di considerare lo sport un aspetto del tutto secondario della vita civile e sociale, valido solo come utile e sano passatempo. Però forse sono responsabili anche i podisti genitori, allorché hanno dei figli e devono cominciare per così dire il “percorso educativo” delegando agli altri (nido, asilo, scuola) un compito che in ossequio a madre natura spetterebbe a loro non diciamo fin dalla nascita, ma quasi.
Stiamo affermando che i podisti genitori dovrebbero portare i bambini appena nati a correre? No di certo. Stiamo cercando di affrontare il problema fin dai primi giorni in cui esso si rappresenta, quando cioè trascorsi pochissimi mesi il bambino guarda intorno a sé l’universo sconosciuto nel quale è stato catapultato e nel quale comincia a ravvisare e a riconoscere voci, volti e cose. In tale mondo egli dovrà saper rapportarsi, anzi “identificarsi” e ne dovrà “imitare” modelli e comportamenti. E poiché ogni genitore podista vorrebbe per il proprio figlio che ne seguisse l’esempio, ecco che deve prepararsi a cominciare da subito a recitare il suo ruolo di “pedagogo” (e il pedagogo era in effetti, nell’antica Grecia, colui che “conduceva”, che “accompagnava” il ragazzo nel suo cammino formativo). L’esempio riveste perciò un ruolo importantissimo nel processo formativo, assumendo i connotati dell’educazione che passa attraverso i processi comunicativi (che possono essere espliciti o impliciti) che regolano il rapporto tra un membro ritenuto competente (il genitore podista) ed un altro, passivo (ma sensibile) ricettore del “messaggio”. L’esempio consente cioè la transizione dal primo al secondo dei contenuti culturali e quindi dei comportamenti che ne derivano, nonché delle modalità di ragionamento tipico della comunità a cui si appartiene. “L’esempio” è… “l’esempio naturale” di un processo comunicativo che consente l’apprendimento visto come esito automatico dell’educazione.
Volendo fare un rapido (e cauto) approfondimento pedagogico, giova forse ricordare che la formulazione della “pedagogia dell’esempio”, la si può enucleare nella letteratura psicoanalitica in relazione al “processo di identificazione” visto come processo caratterizzante un individuo “non adulto” che si appropria dei tratti salienti di un’altra persona per altro amata, realizzando così l’identificazione con l’oggetto d’amore. Ma, attenzione, l’identificazione non è l’imitazione. È fuor di dubbio che la prima può essere indotta dall’amore in modo inconscio, mentre la seconda richiede una valutazione oggettiva del modello da seguire in modo del tutto conscio. Un’ulteriore differenza la ritroviamo nella necessità che l’identificazione, per realizzarsi, non ha bisogno della presenza del “modello”, mentre per l’imitazione è una condizione assolutamente indispensabile.
Esempio, dunque, subito e sempre, nelle forme e nelle modalità più semplici e comuni, in quelle esplicite o implicite, naturali e spontanee del nostro vivere quotidiano. Quel bellissimo film dal titolo “I bambini ci guardano”, ci ammonisce su di una realtà incontrovertibile. I nostri figli non possono che tentare di emularci, perché non sanno fare altro. Essi aprono gli occhi alla vita e sono indotti a replicare i gesti che osservano: quel mettersi le scarpette, quell’ andare fuori a correre, quel sorriso al ritorno stampato sul viso affaticato, sudato e stanco, ma felice!