Intervista (impossibile) a Pierre de Coubertin
Incontriamo il marchese Pierre De Coubertin al caffè “de Flore”, in Boulevar Saint- Germain , dove sappiamo è solito intrattenersi ogni primo pomeriggio. Ci accoglie col suo solito sorrisetto da sotto i baffoni ormai grigi e con le sue note scintille negli occhi, ancora vispi di curiosità per chi, come noi, si occupa di sport. Gli abbiamo chiesto un’intervista che lui cortesemente ci ha concesso. Abbiamo per lui una vera e propria venerazione e ci avviciniamo al tavolino molto emozionati.
Caro De Coubertin, è inutile nasconderlo, il suo nome è indissolubilmente legato alle Olimpiadi. Quindi, la domanda è quasi obbligatoria: ma com’è che le venne in mente di riproporre in chiave moderna i Giochi Olimpici?
I miei genitori mi diedero un’ottima istruzione, volevano che io rinverdissi le posizioni sociali di alto livello che le nostre origini nobiliari quasi imponevano. Per cui, studiai e viaggiai molto, per arricchire le mie conoscenze. Era il periodo susseguente alla Belle Epoque e del colonialismo, e tutto sembrava possibile, almeno in una grande nazione quale era la Francia. Esisteva allora nel mondo, specialmente in Europa, una specie di lotta a chi dovesse diventare una super potenza. Ecco, in Francia si avvertiva una certa ostilità rispetto all’Inghilterra e al suo “splendido isolamento”. Ma io sto divagando…
No, no…, la prego, continui.
Dicevo, avvertivo da buon francese un’antipatia spiccata per l’Inghilterra che, come lei certamente saprà, aveva tra l’altro inventato tutti gli sport, ad eccezione del basket. Così, quando furono scoperti i resti dell’antica città di Olimpia, esplosero contemporaneamente nel mio animo due furori, l’amore della classicità greca e il desiderio di superare l’Inghilterra, sportivamente parlando, con una riproposizione di tutti gli sport.
I suoi studi, quindi, erano stati umanistici…
Sì, ma a quel tempo, in tutta Europa, prevalevano gli studi umanistici rispetto a quelli scientifici. Gli allora moderni ritrovati tecnologici erano visti in funzione di rendere la vita sociale più facile e comoda ai cittadini, per poterli poi lasciare liberi di occuparsi completamente delle attività politiche e militari che richiedevano, appunto, studi letterari e storici. Si riservava un po’ di riguardo solo alla biologia e alla medicina, grazie a Darwin e a Pasteur, per esempio, ma sempre
per riguardo alle esigenze pratiche, spesso individuali. La conduzione della vita polito-sociale, richiedeva una preparazione umanistica, ritenuta anche “nobile”. Volete mettere? Una cosa era occuparsi di una malattia, ben altra cosa era invece studiare un intero periodo storico…
Erano gli anni in cui lei elaborò il progetto educativo fondato sull’educazione sportiva.
Ecco, questa cosa fece scalpore. Ci avevo pensato e anche sperato. Fu uno scossone, per le classi dirigenti di allora. Fino a quel periodo, lo sport era stato visto unicamente, come un’attività ludica, fine a sé stessa. Non a caso la stessa parola “sport”, viene da “diporto”, cioè “gita”, “divertimento”. Invece, io proponevo lo sport come un pilastro per l’educazione delle future generazioni, in sintonia con gli antichi romani che ripetevano fino alla noia “mente sana in corpo sano”. Una cosa che è sempre vera, in ogni epoca, e che spesso viene quasi completamente dimenticata; che cioè la salute mentale di un individuo e di una nazione, comincia dalla salute fisica, individuale e collettiva.
Mi tolga una curiosità: perché lei non divenne subito presidente del CIO, ma si limitò ad esserne solo il segretario, lasciando l’incarico a Demetrius Vikelas?
Per una forma di rispetto, verso l’uomo e verso la storia. Vikelas era greco, ed era entusiasta come me. Ed anche per imporre all’attenzione generale, come dire?, la “grecità”. Poi venni eletto, per proposta unanime, presidente. Ma l’obiettivo che mi ero proposto era stato pienamente raggiunto: avevamo (io e i miei collaboratori) inaugurato una nuova fase della moderna civiltà.
Presidente, lei alle Olimpiadi di Anversa (1920) pronunciò per la prima volta il “Giuramento dell’atleta”: “A nome di tutti i concorrenti, prometto che prenderò parte a questi Giochi Olimpici rispettando e osservando le regole che li governano, impegnandomi nel vero spirito della sportività per uno sport senza doping e senza droghe, per la gloria dello sport e l’onore della mia squadra.” Però, il testo è un po’ cambiato nel tempo.
Ogni legge, ogni regolamento, deve seguire i tempi e adattarsi agli uomini, per servirli meglio.
All’inizio si diceva “paese”, non “squadra”: l’amor di patria era veramente fondamentale. Poi abbiamo visto a cosa ci ha portato, guerre e distruzioni. Giurare sulla squadra è sembrato essere un qualcosa di più intimo e fraterno. Ma prendiamo anche la piaga del doping: come si poteva non considerarla? L’ho detto, le leggi seguono il passo dei tempi.
Lei ha anche ideato il pentathlon moderno.
Sì, ad un certo punto, quello classico greco, comprendente salto in lungo giavellotto, corsa, disco e lotta, non mi sembrava più adeguato e rispondente agli “attrezzi e strumenti” moderni. Così pensai di modificare la disciplina con il tiro a segno, il nuoto, la scherma, l’equitazione, lasciando alla sola corsa a piedi il ricordo del gesto antico e classico per eccellenza. Un po’ come le dicevo: le cose devono andare al passo dei tempi.
A proposito dei tempi moderni, cosa pensa dello sport oggi?
Preferirei non rispondere, visti i numerosi problemi che attraversano lo sport nel suo insieme. Forse, il problema risiede proprio nella diminuita importanza degli studi umanistici. Mi spiego. Dando un maggiore risalto alla materie scientifiche, come d’altronde è giusto e inevitabile, gli uomini hanno perso, o è molto incrinata, quella capacità di cavalcare i fatti e gli avvenimenti che solo una solida base di cultura umanistica garantisce. Lo sport è appesantito da tutta una congerie di problemi, tecnologici, economici, culturali, che sono il prodotto di una crescita personale lontana da certi canoni. E i giovani soprattutto ne pagano le conseguenze. Lo sport riflette tutto questo. Prendiamo l’esempio della droga. Gli atleti si dopano per avere successo, perché la vita moderna è sempre di più contrassegnata dalla necessità del successo, almeno di quello individuale, del proprio. Oggi, ad un giovane, non importa quasi niente delle condizioni in cui versa la società in cui vive; per lui l’importante è la condizione in cui versa la sua singola persona. Quindi, la droga è vista come una possibilità di affermare la propria volontà di raggiungere un risultato e una soddisfazione personale. Non vorrei ripetermi. La cultura umanistica, lo dice la parola, si rivolge all’umanità; la cultura scientifica, se non sorretta da quella umanistica, corre il rischio di ridursi unicamente alle aspettative individuali.
Senta presidente, nel ringraziarla per l’intervista, avremmo pensato di farle omaggio di una maglietta del nostro sito, “podisticamente.it”.
Oh…, che bella sorpresa! Grazie!