La “trasmissione genetica” nel podismo
Indubbiamente anche il podismo, così come tutte le cose di questo mondo, ha avuto un’evoluzione. Su questo non ci piove. Sarebbe oltremodo stupido pensare che il podista di oggi debba somigliare quanto più possibile al podista di ieri, per attestarne efficacia e validità. Così come sarebbe fuori luogo attribuire i successi cronometrici del podista di oggi, quale attestazione di miglioramenti, in contrapposizione ai risultati conseguiti dal podista di ieri. Ciò non toglie che una forma di trasmissione fisiologica sia avvenuta nei decenni (poco più di un secolo) durante i quali si è formata e sviluppata la pratica sportiva caratterizzata anche da “supporti” tecnologici, specialmente sul piano dell’abbigliamento.
Cosa stiamo cercando di dire…? Stiamo cercando di dire che comunque una forma di “trasmissione genetica” c’è pur stata nel corso del tempo…,, “antopologicamente”…, fra il podista dei primi anni del 900 e quello del cosiddetto terzo millennio. Soprattutto, come si diceva, per quanto riguarda l’abbigliamento: scarpe, calzini, pantaloncini, eccetera. Anzi, tutto lascia supporre che al podista degli ultimi tempi si debbano aggiungere altri particolari, per renderlo consono al moderno vestire; occhiali e GPS, soprattutto, ma anche fascette e ausilio di materiali sofisticati, tipo fibra di carbonio, che mai avresti sospettato potessero inserirsi a pieno titolo nel corredo del podista. Ma tant’è.
In realtà, stiamo cercando di dire che forse tutto questo accogliere i moderni ritrovati tecnologici, con i loro indubbi vantaggi sulle effettive prestazioni, possano indurre i podisti, di qualsiasi livello, a non sollecitare più come nel passato le loro pratiche condizioni fisiologiche, determinando quindi uno scadimento delle capacità, o almeno un minore utilizzo delle potenzialità. Esiste infatti il pericolo che si perda la concentrazione negli allenamenti, che non si vada più a fondo nella ricerca del risultato attraverso la fatica. D’altronde, è il “male” tipico della modernità: l’essere umano un po’ tende ad emanciparsi dal lavoro in senso stretto, mediante l’utilizzo delle “macchine”. Salvo poi rammaricarsene, quando si accorge che certe sue particolarità fisiologiche tendono ad atrofizzarsi.
Arriviamo così, in tutti i campi, ad ammirare atleti belli in apparenza, ma in realtà abbastanza fragili, perché hanno (quasi) smarrito la capacità di sofferenza applicata a qualsiasi forma di lavoro.
C’è un possibile rimedio? O si deve andare necessariamente a procedere in questa direzione, pena l’essere tacciati di essere trogloditi, o comunque di essere avversi alle novità e ai progressi del genere umano, perché magari ancorati scioccamente a qualche fasto del passato? Un rimedio ci sarebbe: si dovrebbero utilizzare tutti gli strumenti della modernità, proprio tutti, nessuno escluso, ma senza farli diventare indispensabili per la nostra esistenza sportiva.
Ecco, necessari, non indispensabili.