Uno sguardo al “mental coach” nell’Atletica Leggera
Conoscete Nicoletta Romanazzi? Sì, vero? Ma la conoscete… prima o dopo… l’oro olimpico di Marcell Jacobs…? Diciamoci la verità, prima si aveva, del “mental coach”, una visione abbastanza parziale, mutuata magari da altri sport. Erano balzati agli onori della cronaca, ad esempio, i casi del calciatore Leonardo Bonucci (disistima personale) e del suo Alberto Ferrarini, nonché quello della nuotatrice Federica Pellegrini (ansia da prestazione) e del suo Daniele Popolizio. Però, con l’oro di Tokyo di Jacobs è venuta ufficialmente alla ribalta la presenza del mental coach anche nell’Atletica. E’ giunto allora il tempo di soffermarsi un po’ su questa figura sempre più presente nello sport, e non solo. Infatti, chi è, e cosa fa’, un “mental coach”?
A cosa serve? – Sembra essere un’esigenza tipicamente moderna… La vita si è molto complicata, rivelando, “al suo interno e al suo esterno”, moltissime situazioni che possono frastornare l’individuo. Ecco che, “per non perdersi e per vederci meglio”, l’individuo ha bisogno di un supporto, di una guida. Il mental coach è il compagno, fidato e preparato, che consente all’individuo di acquisire un atteggiamento consapevole, positivo e determinato.
Chi è? – Il mental coach è praticamente un “allenatore della mente”. Egli opera ai fini del miglioramento della vostra performance, nel senso che definisce gli obiettivi e specifica il percorso per conseguirli. Si badi, non è un mago, ma un professionista in grado di farvi prendere coscienza delle vostre capacità e di migliorarle.
Cosa fa’? – Egli è un “facilitatore di processi” ed è un “motivatore”. Attiva cioè il “cambiamento”, quel percorso che porta l’individuo a prendere coscienza delle proprie capacità in divenire e delle tappe intermedie necessarie da raggiungere per conseguire determinati obiettivi indirizzati al miglioramento della performance, se non alla vittoria finale in una specifica competizione.
Suoi requisiti – Si potrebbe in questo caso delineare una sorta di curriculum del mental coach, in dati oggettivi e soggettivi. Per i primi, poiché deve avere un’indubitabile capacità culturale, una laurea sembra davvero necessaria, non importa se in campo umanistico, giuridico o economico (tra l’altro la sua “missione” è rivolta anche a clienti inseriti nel management e nel business), nonché la padronanza di più lingue, oltre a quella madre (il suo ambito d’azione spesso travalica i confini nazionali, soprattutto per le moderne tecnologie di comunicazione). Per i secondi, deve possedere attitudine all’ascolto, capacità di analisi, flessibilità, doti comunicative e riservatezza: tutti i tratti tipici del professionista. Spesso si confonde il coach con lo psicologo. Però, l’attività del mental coach (coaching) non consiste nell’insegnare o addestrare, ma nel creare le condizioni affinché possa verificarsi il cambiamento, nonché lo sviluppo sia personale che professionale del cliente. Ciò perché lo psicologo cura, risolvendo problemi di identità, di personalità e di salute. Invece, il mental coach non fa’ altro che individuare le potenzialità della persona e aiuta il proprio cliente a capire quale sia il percorso effettivo da mettere in pratica al fine di raggiungere gli scopi programmati.
Quanto guadagna? – Possiamo rispondere che il “mercato” è aperto. Certamente è in espansione. Molto dipende da come il mental coach “si pone” all’attenzione del cliente. Comunque, è bene precisare che non è prevista nessuna iscrizione a nessun albo. “La Legge 4/2013 prevede la possibilità di formare associazioni di natura privatistica per le professioni senza albo. Le associazioni non hanno vincolo di rappresentanza esclusiva della professione in questione, lasciando sussistere la possibilità che ne esistano varie per la medesima figura.”