Il mio primissimo coach
Mi guardava da dietro a degli alberi, nel bosco di Portici, dove da qualche giorno andavo ad allenarmi. Avevo cominciato a correre con una certa costanza, perché avevo capito che farlo quando capitava non mi comportava tanti benefici… cronometrici, visti i risultati, diciamo altalenanti, di qualche gara a cui avevo partecipato. Appoggiavo la bici ad un albero e, per non perderla di vista, correvo su di un percorso che avevo misurato con una rotellina metrica di 350 metri. Fu la prima cosa che mi disse:
“Scusa, ma perché non corri oltre quella siepe? Sai, sono giusto 400 metri…”
“Perché così vedo sempre la bici…”
“Non ti preoccupare, qua nessuno tocca niente: siamo podisti…”
Mi piacque subito, questo suo modo gentile e cortese di presentarsi: “Mi chiamo Pino Ierardi.” Poi aggiunse che correvo abbastanza bene ma che, se glielo permettevo, mi avrebbe dato qualche suggerimento. Acconsentii di buon grado. “Correva” l’anno 1992…
La prima cosa fu, appunto, quella di modificare il giro. Anzi, a proposito di giro, lui mi consigliò di utilizzare quello di 1.070 metri, abbastanza pianeggiante ma non troppo, per il tortuoso tracciato del bosco di Portici. Mi accennò anche a quello degli 800 metri e a quello, sconsigliandomelo però per il momento, dei 3.500 metri. Poi mi guardò le scarpette che usavo e tacque. Capii, per educazione. Ho in seguito anch’io usato questa discrezione, quando ho avuto a che fare con podisti principianti: mai partire subito in quarta per le calzature da usare; si potrebbero urtare delle suscettibilità, non si sa mai; meglio “aspettare” che il neofita capisca da sé; in questo caso si da’ un veloce suggerimento in linea ipotetica e generale, senza soffermarsi sul caso specifico, e via.
Quando però iniziammo a corricchiare un po’ insieme, ed io già pregustavo i suoi consigli pratici sul campo, mi disse, non potrò mai dimenticarlo: “Cominciamo dalle braccia”
Fui sorpreso. Mi aspettavo che mi parlasse delle gambe, che so?, dei piedi, e invece… Mi spiegò che correvo come i calciatori, cioè con le mani chiuse all’altezza del petto. Era vero. Le braccia invece dovevano oscillare armonicamente, nella linea inversa delle gambe, come facciamo naturalmente quando camminiamo, con le sole specificità che nell’oscillazione le mani devono sfiorare le anche e che le dita devono restare semiaperte.
Mi disse anche di non guardare sempre il cronometro, cosa che facevo effettivamente con assiduità, ma di controllarlo ad ogni giro che mi ero imposto, o al limite, dopo ogni chilometro. “Bisogna essere liberi, quando si corre, non prigionieri”, diceva. E a proposito di cronometro, aggiungeva che bisognava insistere nell’alternare il ritmo di corsa; un giorno corsa lenta e un altro corsa diversa. Per corsa diversa, si doveva intendere, corsa media, corsa progressiva e ripetute. Questo nel bosco. Poi, bisognava mettere in conto, appena se ne aveva l’opportunità, di frequentare una pista, per corse specifiche di velocità e di mezzofondo e la strada, per corse in salita e qualche fondo. Da non trascurare gli esercizi, da fare periodicamente in palestra, o nel bosco dopo l’allenamento (e quando non pioveva…, aggiungeva ironicamente).
Caro, silenzioso, attento e premuroso Pino Ierardi. E’ stato molto bello vederti ancora una volta sulla strada l’altra mattina e correre un po’ con te. Quando mi capita, è sempre un incredibile e fantastico piacere. Perché, come si suol dire…, il primissimo coach non si scorda mai!