Il podismo è… una repubblica democratica fondata sul “lavoro”
L’articolo 1 della… Costituzione del Podismo Italiano recita proprio così: “Il podismo è una repubblica democratica fondata sul lavoro.” Repubblica (res pubblica) cosa pubblica, e Democratica (demos popolo) e (crazia governo). Quindi, è rivolto a tutti, senza distinzioni di sesso, religione e condizione sociale. Sul Lavoro, perché senza una corsa impegnata, di tanto in tanto, almeno una volta a settimana, non si va’ da nessuna parte, nel senso che il podista in mancanza di un “lavoro” nel suo programma di allenamento, non trae tutti i giovamenti della corsa, per quanto riguarda i miglioramenti cronometrici e dunque delle prestazioni.
Un altro articolo, non meglio precisato nella successione numerica, ci dice che cos’è nel dettaglio un “lavoro”: “E’ quell’allenamento che, espletata la necessaria fase del riscaldamento, secondo una precisa programmazione sportiva, faccia impegnare l’organismo, gradualmente, ai limiti della proprie capacità organiche, per un tempo complessivo che tenga conto della gara a cui si intende partecipare (30’ per una 10 km, 1 h per una 21 km. 1 h e 30’ per una maratona).”
Ironia a parte, è tutto vero. Lo sport è aperto a tutti i cittadini, ma il podismo lo è di più rispetto agli altri. Per praticarlo non occorre possedere un cavallo, avere una costosa bicicletta, abbonarsi ad una piscina, eccetera eccetera. Basta munirsi di un paio di scarpette (adeguate) e con una modica spesa oscillante sui 100 euro si può correre per un migliaio di chilometri. Più a portata di tutti di così… si muore. Tuttavia, quando poi la passione entra nel sangue e diventa spontaneo, nonché necessario fare un “lavoro”, è meglio attenersi ai consigli che seguono:
- Il lavoro andrebbe fatto da solo. Non è come correre in gruppo, tutti insieme in allegria. Fare un lavoro in gruppo, significa uniformare il proprio ritmo a quello degli altri. In tutti i casi si sbaglia, sia che si rallenti per agevolarli, sia che si insiste per stare con loro. Si ottiene di correre sia sotto ritmo (e non è allenante), sia al di là delle nostre possibilità (con un conseguente eccessivo affaticamento in grado di portarci a un qualche infortunio);
- In relazione al precedente consiglio, non si dovrebbe mai finire l’allenamento “stremati”, bensì “affaticati”. Se non si ha più nemmeno la forza di parlare o di salire gli scalini di casa, significa che abbiamo abusato delle nostre capacità e che il nostro corpo sta già pensando a come presentarci il conto;
- Specialmente nei lavori di velocità (progressivi e ripetute), non si deve partite a tutta birra, ma bisogna dosare gli sforzi, affinché i tratti di percorso o le prove vengano “coperte”, cronometricamente parlando, come si era stabilito;
- Se durante la fase di riscaldamento si avverte una certa pesantezza alle gambe, dobbiamo ricordarcelo, perché se appena si comincia il “lavoro” e la sensazione di pesantezza non sfuma, bisogna rinviare l’allenamento;
- Se nella fase clou del lavoro si avvertono dei dolori nella zona del fegato, tanto da sentire il bisogno di rallentare, significa che si sono già esaurite le scorte del glicogeno ed è meglio anche in questo caso fermarsi, senza indagare sul perché e sul come si è verificato l’inconveniente. Sarà poi dopo, con calma, a mente fredda, che si analizzerà la situazione, per cercare d’individuare la ragione o le cose che dovremo evitare alla prossima occasione (ma è quasi sempre una questione di cattiva alimentazione);
- Se durante lo svolgimento del lavoro, magari nella fase di un recupero tra due prove ripetute, cioè in una fase dove si richiede la capacità di lavorare sul lattato, si avverte che qualche muscolo si contrae, anche in questo caso bisogna fermarsi, per evitare crampi, contratture o stiramenti. E non diciamo “purtroppo”, ma “per fortuna”, perché il nostro corpo ci ha avvertito “in tempo.”
Perché di questo dobbiamo essere sicuri: il nostro corpo non è un avversario, ma un amico. Possiamo chiedergli molto, ce lo darà. Però, quando occorre, dobbiamo saperlo ascoltare.